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SANTISSIMA TRINITA’ (Anno A)

 

Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.

Prima lettura (Es 34,4-6.8-9)


In quei giorni, Mosè si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano.
Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà».
Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervìce, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità».

 

Dal Vangelo secondo Giovanni 3, 16-18

 

In quel tempo, disse Gesù a Nicodemo:
«Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».

Anche per la nostra vita dovrebbe essere così, anche noi dovremmo essere coloro che poco per volta, conoscendo il volto di questo Dio, diventiamo capaci di dare così stima e fiducia all’altro che la sua fragilità, pochezza e diversità non è qualcosa che ci spaventa e ci separa, non è qualcosa che ci accusa, che sentiamo come lontano dalla nostra vita, ma è uno spazio dove possiamo sentirci provocati a cercare il punto di comunione.

Dio è un continuo divenire, perché il legame di questa comunione con Lui, che si può generare con Lui, è continuamente nuovo.

Se c’è una diversità che viene continuamente attratta, vuol dire che Dio non è qualcuno che se ne sta fermo in un posto a guardare che tutto il resto del vivere, del creato, del mondo provi ad arrangiarsi da solo e a funzionare, ma è qualcosa che costantemente generando vita ci attira alla vita piena con Lui.

Questa in fondo è la nostra vocazione.

Anche per noi, come per Nicodemo, in questo incontro del Vangelo, il punto di partenza per cercare di capire e di stare nella relazione con il mistero di Dio non è tanto quello di fissare il cielo, come se ci fosse qualcuno di lontano o qualcosa di misterioso da scoprire, ma il punto di partenza, quello che Gesù gli chiede, è allargare lo sguardo e riconoscere che cosa nella nostra vita quotidiana ci sta provocando alla relazione, allo stupore, quella diversità che ci sta provocando a dire ‘di questa cosa, cosa ne faccio? L’allontano da me perché mi dà fastidio o questa realtà mi provoca e mi stimola a cercare la via della comunione?’

È una via di rinascita, costantemente, perché devo accettare la diversità dell’altro ogni istante, ogni momento, non posso darlo per scontato.

Tante volte, anzi, ci accorgiamo che i nostri rapporti e la relazione con il mondo e le cose vanno in crisi quando le diamo per scontato, so già come la pensi, so già come ti comporti…è lì che vengono fuori le situazioni dove la morte bussa alla nostra porta… perché non c’è più spazio di vita, di crescita, di possibilità!

Chiediamoci: che cosa ci stata provocando? Cosa ne facciamo delle cose che ci provocano? Ci chiamano ad un rapporto dove anche noi scopriamo che c’è un Padre che dà sorgente e genera la vita, c’è uno Spirito che è amante, un Figlio che redime il male, che lo sopporta, ci dà questi nomi, ci permette di costruire su questi nomi, quelli che Gesù elenca a Nicodemo “Dio ha amato il mondo, ha dato il figlio, perché chiunque crede in questo nome trovi la salvezza”.

Il nome è questo, è qualcosa che è dato, non sta davanti a noi, dicendo ‘se credo in Dio mi succederà qualcosa’ … è un fondamento, ci è detto che Lui così c’è. Questo è ciò che deve provocare la nostra vita, riuscire a riportare dentro questa relazione, dentro la pienezza di questa unità tutto ciò che il nostro vivere quotidiano ci presenta.

Non guardiamo lontano da noi, ma guardiamo tutto ciò che anche oggi ci provoca e ci stupisce e ci permette di far nascere nel quotidiano della nostra vita il gusto pieno di trovare l’unità.

Aiutaci, Signore, a dire che davvero il nostro Dio è spazio, è comunione di rapporto, è relazione dentro cui anche noi siamo chiamati a starci e ad abitare e tutte le volte che siamo capaci di fare casa dentro questa relazione, scopriremo poco per volta che quel mistero di Dio ci è così vicino addirittura da abitarci.

 

Preghiera

 

Sono cristiano, mio Dio, nel nome del Padre,
insegnami a rendere evidente il suo abbraccio nel mio:
gratuito, creativo, appassionato e sempre vivo.
Sono cristiano, mio Dio, nel nome del Figlio,
insegnami a rendere trasparente il suo volto nel mio:
accogliente, energico, meravigliato, positivo.
Sono cristiano, mio Dio, nel nome del Santo Spirito,
insegnami a rendere presente il suo respiro nel mio:
leggero, giocoso, potente, infinito.
Sono cristiano, mio Dio, nel nome della Trinità,
insegnami a rendere concreto il suo Amore nel mio:
incapace di Essere

senza vivere la comunione di almeno tre persone. Amen

 

 

Commento

 

Quando si vuole conoscere una persona, normalmente gli si chiede il nome e anche nell’esperienza emotiva, relazionale delle cose dare il nome ad una situazione, ad una malattia, ad una difficoltà, a dei pensieri che ci attraversano è il modo con cui ci sembra di addolcire, di sopportare di più quel peso, quella fatica.

Anche per Mosè l’esperienza di questo incontro con Dio è iniziata proprio da qui, da quel rovento ardente, da quella realtà luminosa, provocante che gli ha chiesto di entrare in relazione, ha chiesto il nome.

E poi, in tutto il percorso dei lunghi anni in cui è restato in relazione con Dio, si è accorto che quel nome “Jaweh, Io cono colui che sono”, io sono l’Eterno, Io sono il per sempre, un nome un po’ strano, che è un verbo, un divenire, un agire, un relazionarsi, quel nome è diventato sempre di più, sempre più profondo.

All’inizio gli bastava per capire che era di fronte a qualcosa di bello, di grande, di stupefacente, ma non lo conteneva, non gli bastava.

Nel corso di tutti questi anni in cui è entrato ed è stato dentro questa relazione con Dio, quel nome si è tradotto in molteplici altri nomi. Questa pagina del libro dell’Esodo ce ne mette lì un po’.

Più si avvicina a Lui, più sente il bisogno di un nome nuovo: misericordioso, pietoso, lento all’ira, ricco di grazia, fedele, paziente, benevolo. È come se fosse la stessa persona descritta da più aspetti, da più punti di vista, fino al nome straordinario che questa relazione, iniziata con Mosè e che ha attraversato tutti i secoli e la storia del popolo d’Israele, con Gesù diventa Abbà, padre.

Ma anche questo non basta, perché con la sua morte di croce ci dice che il nome al di sopra di ogni altro nome è comunione, è quell’eterna predisposizione di Dio di accogliere l’altro, di fare spazio all’altro, tanto che nemmeno l’ostacolo più grande, non quello della diversità dell’altro, ma quello della morte impedisce questa possibilità di stare in Dio, di essere con Lui.

Quel nome “Io sono colui che sono” è colui che continua a fare di tutte le diversità una cosa sola.

Questo è il nome che potremmo pronunciare di Dio, che potremmo dare alla nostra esperienza quotidiana della preghiera.

Colui che accoglie la fragilità, la pochezza del nostro essere, tanto che abbiamo bisogno di rivolgerci a qualcuno, l’attira a sé, la tiene su di sé, la porta su di sé.