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Venerdì 13 marzo 2020

 

5° incontro - L'ingresso in Gerusalemme

 

Dal Vangelo di Matteo


Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Betfage, verso il monte degli Ulivi,
il Signore Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito
troverete un’asina, legata, e con essa un puledro. Slegateli e conduceteli da me. E se qualcuno vi
dirà qualcosa, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà indietro subito”». Ora
questo avvenne perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Dite alla figlia
di Sion: Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da
soma». I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù: condussero l’asina e
il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. La folla, numerosissima, stese i propri mantelli sulla strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla stra-
da. La folla che lo precedeva e quella che lo seguiva, gridava: «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!». (Mt 21, 1-9)

 

Il turbamento di Gerusalemme

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Concludiamo questa sera il percorso di contemplazione dei misteri della Pasqua.

Lo facciamo fermandoci su un brano che forse è anche uno dei più cari, di quelli che ascoltiamo nelle grandi solennità dell'anno liturgico. Perché la festa della domenica delle palme, in cui facciamo memoria dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme , è una festa che ci piace celebrare, è una festa che ha proprio il sapore della gioia, dell'entusiasmo, per la venuta di Gesù. Ma anche una festa dai contorni un po' troppo sentimentali, diciamo così. Prendiamo questo gesto di Gesù che viene sull'asinello, come una cosa che fa tenerezza.

Ma ascolteremo questa sera una parola che ci farà sentire come, invece, questo gesto di tenero non ha moltissimo, per la verità; in realtà, per chi lo visse a quel tempo, fu uno scossone, letteralmente.

E in effetti è proprio giusto pensarlo così; quando lo celebreremo quest'anno, se ci sarà dato di poterlo fare nella settimana santa e ascolteremo questo vangelo, forse sarà una buona cosa ascoltare questo racconto come uno scossone.

Perché nei versetti successivi a quelli letti, Matteo dice proprio così: che quando Gesù entra in città, dirigendosi poi verso il tempio, la città subisce un grande turbamento, un sisma subisce!

La parola utilizzata da Matteo dice proprio questo. Gerusalemme ne aveva già subito un altro di sisma, per la verità; perché quando viene annunciata la nascita di Gesù a Betlemme, la città si scuote per questa nascita.

I grandi incontri di Gesù con questa città, i grandi ingressi di Gesù dentro la storia, provocano uno scossone, un terremoto; buttano per aria le cose, fanno crollare ciò che non è consistente, fanno venir via gli intonaci, perché si veda che cosa ci sta sotto, creano delle crepe, delle aperture, là dove non passava un filo d'aria.

Ci sarà un terzo terremoto, quando ci sarà l'apertura del sepolcro, un altro scuotimento.

Davvero ogni ingresso da signore di questo Gesù dentro la storia è uno scossone. (senza dimenticare lo squarciarsi del velo del tempio e il buio durante la sua morte).

E ascoltato da questo punto di vista,in effetti, questo ingresso di Gesù, tra le frasche di ulivi e mantelli messi per terra, l'asino, interroga ancora di più.

 

 

La Paternità buona del Padre si rivela nelle beatitudini

 

Da un certo punto di vista questo ci consola, perché sentiamo questo Signore che promette di accompagnare la nostra vita, è un Signore potente! Non è in balia delle cose. Però ci chiede anche di interrogarci su quale sia la sua potenza, e che cosa se ne fa; in che senso è Signore ? Quale la prospettiva per comprendere questa regalità?

E in effetti questo è un racconto che parla proprio di regalità. Parla del modo in cui Gesù intende il suo Regno e il Regno del Padre suo, il modo in cui lo governa, in cui lui tiene le redini della situazione. Di questo parla.

Di questo tema, peraltro, Matteo non ha lasciato digiuni i suoi lettori. Ci ha messo tutto un vangelo fino a qui, per narrare e raccontare un po' questo Regno.

Abbiamo ascoltato le parabole del Regno, che parlano proprio del mistero del Regno del Padre suo, del Regno di Dio all'opera nella storia. Ma sono diversi i passi in cui Matteo ci da conto di questa paternità buona all'opera nel mondo, di questa operosità gentile e benevola, provvidente e compassionevole del Padre all'opera nella storia. L'evangelista ci permette di vedere che questo operare di Dio nella storia non è solo benevolo, compassionevole e provvidente, ma è capace di creare delle novità; è capace di creare l'armonia, là dove ci sono i conflitti; di creare pace e comunione, là dove ci sono le divisioni; di riconciliare; di rimettere in piedi chi è caduto; di riabilitare chi era squalificato; di dare pienezza di vita, là dove non ce n'è.

E nel raccontare di questo, Matteo parte dalla esperienza fondamentale, dove il Padre vuol garantire ai suoi figli il suo operare; che è quella delle beatitudine all'inizio del discorso delle montagna. Come a dire: ecco, l'effetto fondamentale dell'agire del Padre è questo: il Padre opera per la vostra beatitudine. Volete vedere Dio all'opera nella storia? È anzitutto dove c'è beatitudine. Volete vedere qual'è l'effetto primo della sua Paternità? È questo: dove vedete un beato, una beata, vedete un effetto di quella Paternità.

La beatitudine è un effetto della presenza di Dio nella vita degli uomini e delle donne. Non è qualcosa che si produce e si realizza, non è l'effetto di un buon comportamento. È il risultato di una relazione: quella che il Padre ha coi suoi figli; una relazione, nella quale vuole che i suoi figli avvertano sempre che la loro vita da quella relazione riceve una garanzia di significato: la tua vita non è mai senza senso, non è mai senza valore. È il mio esserti Padre che da valore a questo vivere; ed è il tuo vivere da figlio, riconoscendomi come Padre, che da senso a questo tuo esistere; anche quando la tua vita è scossa dalla afflizione, dal pianto, dalla persecuzione, perfino del lutto. Beati gli afflitti, i perseguitati, quelli che hanno fame e sete di giustizia, beati quelli che sono poveri di spirito o poveri e basta.

Ancora, Matteo racconta altri effetti di questa regalità, di questa sovranità del Padre. Racconta che il modo con cui il Padre governa il mondo, è quello di suscitare un amore, che è capace di dedizione anche al nemico; di una misericordia che è capace di coprire i peccati peggiori; che la modalità di rapportarsi con i beni materiali sia all'insegna della libertà.

Racconta che questa regalità del Padre si manifesta nella capacità di stare dentro i piccoli e grandi affanni della vita: il nutrirsi, il vestirsi, avere una casa, una sicurezza, avere la salute, senza preoccupazione, ma con fiducia. Ecco Matteo ci dice che questo Regno, che questo modo di Dio di essere un re Padre, è una modalità che non si oppone al malvagio con le sue stesse armi. Per quanto sia potente, capace di qualsiasi cosa, non si oppone mai all'empio con le sue stesse armi; preferisce la compagnia dei piccoli, dei poveri, dei peccatori, per liberarli dal male e farsi carico dei loro bisogni; e che nulla ha a che fare, questo sovrano Padre, con i sovrani del mondo, umorali e violenti, prepotenti; come quelli che quando ti presenti ad un banchetto senza l'abito giusto, ti fanno fuori; come quelli che, se non accetti l'invito al loro banchetto, ti radono al suolo la cittadina. Non c'entra nulla con questi.

Così Matteo ci fa arrivare all'ingresso di Gerusalemme con tutto questo bagaglio ricco di comprensione del mistero di Dio, che ci permetterebbe già di entrare, senza fraintendere il senso di quel gesto. A chi aveva camminato con lui avrebbe già permesso tutto questo bagaglio di rivelazione di racconto, di svelamento del mistero di Dio, di comprendere quello che stava capitando, di leggerlo in profondità, di apprezzarlo, di sostenerlo.

Ma non fu proprio così. E sconcerta sempre avvertire il contrasto tra questo contesto terribilmente drammatico e la festosità di questa entrata, e la rapidità con cui poi le voci di festa si muteranno in richiesta di morte.

 

 

Un gesto di provocazione

 

Arriviamo qui ad ascoltare un altro pezzo di racconto della regalità di Dio, con questa cornice prospettica. Ma non solo; Matteo aggiunge altri elementi di cornice a questo racconto. E un po' tutto il contesto, in cui questo episodio è inserito, ci fa avvertire che lo stile con cui Gesù sta compiendo questo gesto, lo si capirà nei capitoli immediatamente successivi a questo cap. 21.

Da lì si capisce che Gesù sta compiendo un gesto di provocazione; andrà allo scontro con le autorità di Israele; gliela canterà dritto in faccia la loro ipocrisia, l'aver deviato dalla volontà di Dio, l'aver travisato volutamente o meno il senso della Legge. Ma lui provoca, non per cercare la lotta o la battaglia; provoca appunto; e quel terremoto ci da la chiave di lettura, per scuotere, per smuovere ciò che si è irrigidito; per far venir fuori dalle barricate, in cui si erano chiusi, i suoi avversari; farli uscire allo scoperto; non per colpirli, ma per medicarne le ferite, che la durezza del loro cuore certamente aveva causato alle loro vite.

Allora questo dell'ingresso sul puledro d'asina è una provocazione, che va letta in stretto collegamento con il gesto che immediatamente dopo viene raccontato: la cacciata dei mercanti dal tempio. Noi capiamo qualcosa della regalità di Gesù se abbiamo ben presente che cosa succederà poi nel tempio.

Infine, l'ultimo elemento con il quale Matteo ci invita a guardare a questo gesto di Gesù è questa citazione biblica, Matteo ne fa largo uso nel suo vangelo di citazioni dell'antico testamento, con le quali offre delle chiavi di lettura, da delle cornici interpretative, arricchisce il senso; lo mette in una prospettiva di tutta la storia della salvezza di Israele.

Ma qui la mette proprio all'inizio dell'episodio, in mezzo tra l'ordine che Gesù dà ai discepoli e l'esecuzione dello stesso ordine; lo piazza lì in anticipo, diversamente di tutte le altre volte in cui usa queste citazioni cosiddette di compimento, con le quali normalmente chiude i racconti per dire: avete visto è successo proprio come era stato anticipato.

Qui invece lo mette quasi come titolo, come se fosse un prologo; così sapete bene qual'è il paio di occhiali da mettere per leggere questo episodio. È un versetto che è la citazione di un mix tra due versetti di Is. 62,11 e Zc. 9,9 che lui riprende ( ma pare che gli sia arrivata già così questa versione del testo), forse non sa nemmeno bene la provenienza, tanto che non lo dice; ma in ogni caso la mette come punto prospettico.

 

 

 

 

Gesù entra in Gerusalemme come il Signore suo Salvatore

 

Dunque arriviamo dentro questo brano con tutto questo portato di significati. Qui sappiamo già che questa Gerusalemme è la città del rifiuto, nella quale Gesù si scontrerà definitivamente con la resistenza al vangelo. E proprio per questo che va a darle uno scossone. E lo fa arrivando proprio dal monte degli ulivi, dal quale, ancora secondo Zaccaria, sarebbe arrivato il Salvatore.

Dunque, nel racconto di Matteo, Gesù si presenta, a quella città che lo sta rifiutando, direttamente come il Salvatore . Quindi non si presenta come un antagonista, come un nemico, come colui che vine a conquistare la città, a sottometterla, a soggiogarla sotto il suo potere; no, viene come il Salvatore, come colui che libererà la città, come colui che libera Israele; che dà pienezza definitiva alla alleanza col suo Signore, che ristabilisce la giustizia, la pace; viene come il salvatore! Capite?

E già questo è molto provocante come prospettiva. Come si fa ad affacciarsi al proprio nemico come il suo salvatore? Come è possibile avere questo sguardo? Quale capacità ricreatrice, quale profondità di amore riplasmante può avere una azione di questo genere?

Noi dobbiamo aspettarci che il Signore guardi la nostra vita sempre con questo sguardo! Anche quando gli siamo antagonisti, anche quando ci allontaniamo dalla sua parola, anche quando la contrastiamo, magari; o tentiamo in tutti i modo di smentirla, di saggiarla, di metterla alla prova, di tentarla anche; perfino quando lo bestemmiamo. Il Signore ci guarda come il nostro Salvatore, come colui che vuole liberarci, prendersi cura di noi; come colui che ha compassione delle sofferenze che portiamo; come colui che vuole dare pienezza alla vita che viviamo.

Anche qui, come abbiamo già ritrovato in altri passi che abbiamo commentato le scorse sere, Gesù sembra già sapere le cose in anticipo. È in anticipo su quello che verrà; è in controllo sulla situazione; ma forse è meglio dire proprio è in anticipo. Questo ci dà la sensazione che il Signore precede i nostri passi; che il suo amore è in anticipo sulla nostra esistenza; non corre continuamente ai ripari, ma è in anticipo. Vuol dire che anche la possibilità del nostro tradimento, del nostro peccato, è anticipata dal suo amore; e a questo anticipo dispone anche l'operato dei suoi discepoli: “Andate e... subito troverete”.

Capiamo così che le mosse che fa non sono casuali; nell'ordinargli quel che dovranno fare, dà addirittura indicazioni a loro circa gli ostacoli che potrebbero trovare. E andrà proprio così.

Ma questo preparare in anticipo ci fa comprendere che il gesto che Gesù sta per fare, non è affatto casuale, ma assolutamente preparato e voluto.

Ancora, nel dare questo ordine si presenta come il Kyrios, il Signore: “Il Signore ne ha bisogno”. Ma che Signore è, appunto che Signore è? Uno che di fronte al nemico si pone come suo Salvatore; che signoria è questa? Non funzionano così le signorie del mondo. E questo Signore come usa la conoscenza in anticipo delle cose? Nei conflitti conoscere in anticipo le mosse dell'avversario vuol dire aver la vita facile; saper anticipare le mosse del nemico è il segreto della vittoria. Ma Lui che cosa se ne fa di questa conoscenza, a servizio di cosa la mette?

E qui Lui dimostra di essere Signore sul serio, si comporta anche come tale, perché dà l'impressione di poter disporre dei beni dei suoi sudditi come vuole: “ Ho bisogno di quel puledro andate e dite che ho bisogno per me”, come fanno i sovrani. Ma diversamente da come fanno i sovrani, fa questa promessa delicata, che fa un po sorridere: “Ma lo rimanderà indietro subito”. come a non voler dare neanche un vago sospetto che sia uno di quei signori, che requisisce abusando delle cose. No, è un prestito, l'asino gli sarà restituito meglio di prima. E questo rispetto per le cose altrui dice già molto della sua sovranità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gesù viene come il Re mite

 

 

 

Ma il sospetto che ci sia qualcosa di diverso nel suo modo di essere Signore, viene aumentato da questa citazione, il cui centro è una parola sola, che Matteo ha già utilizzato in almeno un paio di occasioni. In greco è il termine “ήπιος = epios” che potremmo tradurre così; benevolo, mansueto, gentile. “Dite alla figlia di Sion: Ecco, a te viene il tuo re, mite”, buono e benevolo e mansueto, seduto su un asina e un puledro figlio di una bestia da soma..

Matteo usa due volte questa espressione: una proprio nelle beatitudini ( Mt. 5,5 ) beati i miti. Poi in quel passo famoso, uno dei più consolanti del vangelo: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi darò ristoro, prendete il mio giogo sopra di voi, imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete ristoro per la vostra vita”. La mitezza nelle beatitudini viene descritta proprio così, come una circostanza nella quale la beatitudine del Padre si manifesta. È come se Gesù nell'annuncio delle beatitudini avesse detto; oh ho visto della gente che si comportava in modo mite. Diversamente dagli altri nel mondo, non era presa dalla fame di affermarsi sugli altri con la violenza, la forza, la prevaricazione, con la prepotenza. E anche di fronte agli attacchi li ho visti non reagire con altrettanta durezza e violenza; li ho visti reagire, magari con forza per trattenere il violento, ma facendone un buon uso di quella forza, non per ferire ma per salvare; non per schiacciare ma per sollevare persino l'avversario; non per mettere fine alla sua vita ma per mettere altre occasioni di vita. Bene io ho visto quei miti lì anche nel travaglio, li ho visti beati.

Ho visto che esercitare la forza in quel modo è occasione di senso e di significato alla vita. Ho visto in loro risplendere i tratti del volto del Padre mio. Ho visto il Padre mio dare a quelli una pienezza di vita che in altri non ho visto. Lo dirà poi anche di sé, con una espressione precisa, che fa da contrasto rispetto al modo con cui invece i farisei vivevano il rapporto con il popolo e il rapporto con la legge di Dio. Gesù fa notare che i capi del popolo, scribi e farisei, utilizzavano la legge come strumento di oppressione, un giogo pesante che soffocava, che toglieva il respiro che toglieva vita. E lo facevano senza farsene carico,senza essere obbedienti. Gesù invece si propone come colui

che solleva quel peso dalle spalle, anzitutto perché lui per primo si fa obbediente al Padre. La sua mitezza è innanzitutto obbedienza alla volontà del Padre e alla sua Parola. Dunque, proprio in virtù di questa relazione col Padre, fa di Gesù e delle sue parole e della sua chiamata, della sua prossimità, non un peso da portare, qualcosa che schiaccia, come il potente e il prepotente, ma come un sollievo, che da respiro, che fa allargare i polmoni, come un giogo leggero.

E dunque Gesù entra a Gerusalemme mite così. È certamente uno stile nonviolento e pacifico, ma non basta dire questo. È chiaro che viene in pace Gesù, ma non è sufficiente dire che viene in pace; nel suo fare pace non è un debole, affatto; non è un fragile nel senso di chi è remissivo, si lasciano fare tutto, basta il quieto vivere, basta che le cose stiano tranquille. Tutt'altro; non è violento e pacifico, ma è forte, di una forza messa al servizio (ieri lo abbiamo detto) della crescita dell'altro, del riscatto, della pienezza di vita.

Per rafforzare questa caratteristica della mitezza peculiare di Gesù viene utilizzato questo segno dell'asino; diversamente dal cavallo, che era una vera e propria arma da guerra a quel tempo; diversamente dalla mula, che era la cavalcatura del re. Qui viene utilizzato l'asino, che era l'animale da soma, da fatica, quello che usava il popolo nella vita ordinaria.

 

 

Di chi è Re, Cristo

 

Di chi è Signore uno che viene ed entra nella città che gli è nemica, sul dorso di uno strumento da lavoro, ordinario, feriale. Di chi è re uno così? Di chi vuole essere re, che re vuole essere uno così? In che senso è re? Si intuisce molto bene che i suoi palazzi, la sua corte non saranno certo quelle sontuose, come quelle di Erode. Si comprende che gli ambienti che predilige non sono certo quelli dei grandi palazzi dei ricchi, delle feste di corte. Si capisce bene che gli spazi che gli sono famigliari sono quelli dell'ordinario, della vita della gente comune; quelli che ha attraversato nella sua predicazione. Che certo sono anche le case dei ricchi, che Gesù non ha mancato di frequentare, ma non per farsi signore, per fare il signorotto.

Questo ci dà una lente importante per leggere la presenza del Signore e quali sono gli ambiti della sua signoria nella nostra vita. Se questo entra a dorso di un asino è un vicino di casa; è quello che prende il pullman con me, che fa la coda alla cassa del supermercato.

Evidentemente non è un dominatore. I discepoli eseguono l'ordine ed ecco l'ingresso che tutto tranne una parata militare o una marcia di conquista su Gerusalemme. Eppure costui è un re! La folla ovviamente non può essere dipinta che come una folla straripante, festante; calca la mano Matteo come è giusto che debba fare; la folla compie i normali gesti di onorificenza che venivano riservati alle persone importanti; distende i mantelli perché il suo piede non tocchi terra, stende le fronde, lo cantano come messia il figlio di Davide colui che viene nel nome del Signore, gridano osanna; come si salutava chi arrivava a Gerusalemme.

 

 

Il gesto profetico di Gesù nel tempio: qual'è il suo regno

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Ma non finisce qui. Perché l'ingresso è seguito da un gesto importante. Entra nella città e va direttamente nel tempio. Lì compirà quel gesto famoso delle bancarelle rovesciate dei venditori di colombe e dei cambiavalute. Un gesto che spesso si interpreta male: vedi che anche Gesù qualche volta, quando è servito, è stato violento!?. Ha usato la forza per colpire?!

Ma se è vera la lettura che abbiamo fatto fin qui, è evidentemente una manipolazione del vangelo, attribuire significati di quel genere. Quel gesto invece non è affatto un gesto violento, ma un gesto meramente profetico. Inoltre dobbiamo immaginarci un gesto di poco conto, che nella grande spianata lui abbia buttato per aria un qualche banchetto, che non ha richiesto nemmeno l'intervento delle guardie del tempo. Cosa che nemmeno ha scomodato i sacerdoti e i capi del popolo, che quando vedono compiere il gesto non si preoccupano più di tanto.

Ma invece si scatenano quando Gesù compie un altro gesto, che è il vero gesto profetico che Lui è entrato a compiere nel tempio.

Gesù entra e nel tempio guarisce e viene attorniato da bambini; cioè da chi aveva meno valore all'interno della società ebraica, che non aveva diritto, perché impuri, ad entrare nel tempio: gli scarti, i malati, i bambini, mancherebbero giusto le donne (ma nel tempio non potevano entrare, se non in un posto a parte). Guarisce gli uni e accoglie l'osanna degli altri. Ridà vita a chi soffre, e dà parola, riconosce parola profetica a chi non aveva diritto di parola. E questo è inaccettabile per i capi del popolo; reagiscono violentemente, si scontrano con lui, gli rimproverano esattamente questo: il fatto che abbia guarito i malati e che i piccoli gridano la sua gloria. Perché ai loro occhi è inaccettabile un Dio il cui popolo è fatto così: di ciechi storpi e di bambini. Il loro Dio è il dio della gloria della possanza.

Gesù entra nel tempio e si prende possesso e alla guida di quello che è il vero Israele, il suo popolo, un popolo di ciechi, di storpi e di piccoli. In Galilea la sua predicazione aveva raccolto intorno a lui folle fatte così. Ecco di chi è re! Ecco che re è!

 

Certo che pensare che il popolo che Gesù è venuto a costituire, come il popolo di cui lui è sovrano, come i rappresentanti del Regno che lui è venuta ad annunciare, sia fatto così, è qualche cosa che, mentre lo ascoltiamo, non può non metterci in crisi; non può non metterci in difficoltà.

A me fa specie in questi giorni, in cui ci capita di riconoscerci con grande facilità in chi domanda dal Signore una guarigione; in chi si rivolge a Lui con voce bambina e fragile, pensare che questo è il tempo del suo abbandono, come se lui si fosse ritratto, per lasciare una prova e vedere che fede sorge in un tempo così!

Il racconto di oggi ci annuncia, invece, una prossimità più intensa del Signore, in un tempo come quello che viviamo. Ed una presenza intensa proprio al capezzale, di chi si riconosce in questi.

E diventa difficile non vedere in tutti coloro che si stanno prodigando, con senso di responsabilità, con verità, con competenza, con capacità, con grande attenzione e rispetto della vita delle persone; ecco è davvero difficile non vedere in queste persone, che a vario titolo e in varie modalità, con varie risorse, ma che stanno facendo tutto questo, un segno reale del Regno di Dio all'opera. È davvero difficile!

Il Vangelo ci chiede di riconoscere che lì c'è una presenza operante a favore del bene dell'uomo e della sua salvezza, in varie modalità.

E certamente un Cristo così, re così, sovrano in questo modo, di un popolo così, ci chiederà di entrare dentro la settimana santa anche con un altro sguardo, con un'altra prospettiva. Entreremo nei misteri santi abilitati a riconoscere quell'agire di cura e di attenzione, di vicinanza, di prossimità, di servizio, come la vera sovranità di Dio all'opera.

 

Lo chiediamo davvero, lo chiediamo per noi, lo chiediamo per questo tempo che stiamo vivendo.