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Parrocchia dei santi Vito e Modesto di Civate

ESERCIZI SPIRITUALI

tenuti da don Cristiano Mauri

 

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Il MISTERO PASQUALE

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9 - 13 MARZO 2020

 

trascrizione non rivista dall'autore

 

 

 

GIOVEDI’ - La lavanda dei piedi

 

 

Dal Vangelo di Giovanni

Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al
Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Mentre cenavano,
quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, Gesù
sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava,si
alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò
dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di
cui si era cinto. Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: "Signore, tu lavi i piedi a me?".
Rispose Gesù: "Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo". Gli disse Simon
Pietro: "Non mi laverai mai i piedi!". Gli rispose Gesù: "Se non ti laverò, non avrai parte con me".
Gli disse Simon Pietro: "Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!”.Soggiunse Gesù:
"Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo; e voi siete mondi,
ma non tutti". Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: "Non tutti siete mondi”.Quando
dunque ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro: "Sapete ciò che vi
ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e
il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato
infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. In verità, in verità vi dico: un servo
non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo
queste cose, sarete beati se le metterete in pratica.

 

Gesù che si fa servo rivela l'agire amante di Dio

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Il nostro percorso di contemplazione del mistero pasquale si svolge lungo tutta l'ultima settimana di vita terrena di Gesù. L'abbiamo percorsa a ritroso; siamo partiti dal punto prospettico di ogni lettura di fede, di ogni atto contemplativo del cristiano. Ogni movimento di fede, ogni atto di preghiera, ogni tentativo di iniziativa di ascolto della parola, deve partire da quel sepolcro vuoto e avere la consapevolezza che il Signore è vivo, che ci accompagna e cammina con noi. E da lì siamo partiti, entrando poi nel silenzio del sabato santo e contemplando, ieri sera, lo “spettacolo” della croce.

 

Questa sera ci fermiamo dentro un contesto di intimità, raccolto; un contesto caldo di amicizia, di condivisione profonda. È il contesto dell'ultima cena. Quell'ultima cena, quella che celebriamo il giovedì santo e che contempleremo, non tanto nel gesto eucaristico dello spezzare del pane, ma in quel gesto compiuto nel chiuso del cenacolo, da Gesù nei confronti dei discepoli. Un gesto, questo, così particolare e che per certi aspetti purtroppo, forse per le modalità con cui ne facciamo memoria, forse per l'eccesso di utilizzo di questo segno, dell'immagine del grembiule e della lavanda, è diventato addirittura un po' retorico.

E già sarebbe un'ottima cosa se questa sera, nel metterci ancora una volta nel contemplare adoranti questo mistero del Cristo che si fa servo, riuscissimo a togliete tutta la parte un po' retorica, un po' sentimentale. Noi nella stragrande maggioranza dei casi, quando facciamo memoria di questo gesto, durante la settimana santa, lo facciamo spesso coinvolgendo i bambini, che è una cosa molto bella; ma va detto che dà un po' a questo gesto un immagine di una cosa un po' da bambini, una piccola recita che facciamo.

Mentre anche dentro questo gesto, come in tutti gli altri passaggi pasquali, c'è un grande mistero raccolto. E questo gesto ha un po' anche un carattere enigmatico; e non dobbiamo sottovalutare il fatto che i discepoli non lo capirono. Anzi è qualcosa che dobbiamo tenere in grande considerazione. E dobbiamo entrare in questo brano con questo spirito: di chi si pone davanti ad un segno di non facile interpretazione e che può prestarsi a tanti fraintendimenti, anche delle strumentalizzazione, delle manipolazioni, delle lettura non fedeli, se non addirittura in malafede.

 

La lotta tra luce e tenebra

 

Ci troviamo in un punto importante del vangelo di Giovanni; e uno snodo importante in cui il suo vangelo svolta pagina. È costruito in due grandi sezioni: una prima parte, tradizionalmente chiamato il libro dei segni, nel quale si raccontano alcune opere che Gesù fa; e poi c'è questa seconda parte, che inizia al capitolo 13, che è il cosiddetto il libro della gloria. Detto magari in maniera semplicistica è l'apparire dell'amore di Dio, del manifestarsi dell'amore del Padre dentro l'operato di suo figlio.

In questa ultima parte del vangelo di Giovanni, questo agire amante di Dio, agire amoroso di Dio nelle opere dl figlio, diventa esplicito, diventa luminoso. Quella lotta tra tenebre e luce, che Giovanni anticipa nel suo prologo, e che è anch'essa una chiave interpretativa di tutta la sua teologia, qui arriva al suo punto cruciale: il principe delle tenebre cerca di avere la vittoria sulla luce.

Ed è proprio in questo contesto di tenebra, che abbiamo già un po' avvertito nel racconto, della presenza del traditore dentro il cenacolo dell'intimità. Questa tenebra, però, sarà vinta da una luce straordinariamente luminosa: eccola qui la gloria e la luce dell'amore del Padre.

Dunque bisogna entrare in questa seconda parte del vangelo di Giovanni, entrare dentro questo brano, dentro questo gesto, con questa aspettativa: qui avremo modo di vedere un tratto, un riflesso, un raggio di quella luce; vedremo anche un po' dello scontro tra luce e le tenebre, vedremo come la luce fa, in che modo si afferma sopra la tenebra, come l'affronta, quali armi utilizza.

Anche questa sera come le altre, avremo l'occasione di comprendere qualcosa del volto di Dio e di contemplarlo, e allo stesso modo avremo l'opportunità di rispecchiarci dentro quel volto per comprendere qualcosa di noi. Riconoscerlo e riorientarlo, indirizzarlo secondo la strada che il vangelo ci indica, come la strada della beatitudine, della gioia piena. Lasciando cadere ciò che non corrisponde a quella strada e invece intraprendendo con maggiore entusiasmo ed efficacia ciò che invece corrisponde al vangelo.

 

 

La lavanda dei piedi

 

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L'evangelista Giovanni costruisce questo brano con una struttura molto semplice da intuire, che ci aiuta nella lettura di un testo che, come tutti i suoi testi, non sono di facile lettura, di facile fruibilità.

Possiamo riconoscere 4 parti del racconto.

 

1 - Una introduzione; sono i primi 3 versetti, nei quali l'evangelista costruisce un po' il contesto: dal punto di vista cronologico; dal punto di vista tematico, dove ci fa assaggiare quello che viene di seguito; da un punto diciamo emotivo, dove mette in campo un po' anche gli attori.

2 - Una seconda parte; quella del racconto vero e proprio della lavanda, un racconto molto dettagliato, narrato come a rallentatore, con molta solennità, narrando gesto per gesto quel che Gesù va compiendo.

3 - 4 Poi ci sono due parti: una consiste nel dialogo tra Gesù e Pietro; e un'ultima parte che segue il termine della lavanda. E queste due ultime parti sono due spiegazioni.

Qui non c'è solo il racconto del gesto, ma ci sono anche le interpretazioni, ben due: una che emerge dal dialogo con Pietro e l'altra con la quale conclude il suo insegnamento. Sono due interpretazioni che hanno dei contenuti e degli obiettivi leggermente diversi.

Quando Gesù dialoga con Pietro, e un po' battibecca, coglie l'occasione per raccontare anzitutto qualcosa di sé. In quei versetti in cui Gesù dialoga col il primo dei discepoli, fa capire chi è lui dentro quella lavanda; qual'è la sua intenzione; come si sta ponendo nei confronti dei discepoli; che cosa vuole ottenere, qual'è l'obiettivo di quei gesti di fronte a loro. E dunque, indirettamente, dice anche ciò che i discepoli devono disporsi a ricevere.

La seconda spiegazione, quella conclusiva, potremmo dire che spiega che cosa un discepolo deve fare, a valle di quel gesto. Qui ci è spiegato chi è il discepolo; dentro la lavanda dei piedi e a partire dalla lavanda dei piedi.

Che ci siano due interpretazioni immediatamente collegate al gesto, deve subito far accendere una lampadina. Le spiegazioni seguono delle incomprensioni. Quella di Pietro, ma possiamo immaginare che l'incomprensione non fosse solo sua ma di tutti; e che fossero un po' perplessi per il gesto che Gesù stava compiendo è evidente.

Questo non dobbiamo prenderlo con disinvoltura; questo non è un testo in cui si deve entrare e pensare che sia il supermarket dei buoni consigli. Come a dire: come si fa ad essere un buon cristiano? Eh... bisogna servire gli altri!!. E allora uno parte e comincia a servire tutti. Non serve a questo il racconto della lavanda dei piedi. Non è una descrizione delle attività che bisogna intraprendere. Non è raccolta qui una specie di etica dell'imitazione, per la quale vengono descritti dei gesti, che, con la riproduzione fedele degli stessi, ci garantisce una vita buona. No! Non è tanto questo. Se fosse solo questo, i discepoli non avrebbero fatto gran che fatica a capire. Invece no! Colgono che quel gesto ha una portata simboliche, che non può essere lasciata cadere così facilmente. E la loro difficoltà a capire ci deve far pensare.

 

 

Cosa dice di sé Gesù in questo gesto

 

Allora siamo autorizzati a parlare della lavanda dei piedi, e dire che cosa è questo gesto, solo a partire dalle parole che Gesù dice di quel gesto. Lui è l'interprete delle proprie azioni, lui ci spiega che senso ha quel gesto, che valore ha, che ricaduta sulla nostra esistenza. E non siamo autorizzati ad attaccarci e ad aggiungerci altri significati, altre interpretazioni, altre letture.

Perché qualche volta ci capita di farlo: penso quando si dice che i fratelli vanno serviti, perché questa diventa la maniera con cui poi ci si merita il paradiso. E dove lo troviamo qui questo significato?

Oppure dire che questo è importante perché tutti dobbiamo servire gli altri, perché è importante che dobbiamo mortificare i nostri orgogli; e allora mettersi a servire è una buona occasione per mortificarci. Ma dove lo troviamo qui questo senso? Nulla qui parla di mortificazione. Qui Gesù sta mostrando un gesto che vivifica: sapendo queste cose sarete beati, non avrete la morte nel cuore, avrete la gioia nel cuore, quella piena. E mettersi a servire i fratelli non può essere considerata una penitenza mortificante. Qui ci è raccontato qualcos'altro.

Ecco due esempi per far capire come può essere molto facile appiccicare altri significati a questo gesto, che invece chiede di essere interpretato a partire da ciò che Gesù dice di quel gesto.

 

 

L'ora di Gesù, in cui la gloria di Dio risplende: l'ora del compimento

 

Dunque entriamoci e ci soffermiamo su questa introduzione che Giovanni fa, nella quale mette elementi notevoli per interpretare il gesto. Innanzitutto le annotazioni cronologiche.

Siamo in prossimità della Pasqua, anche se per Giovanni non è la cena di Pasqua, ma siamo in prossimità della Pasqua e dunque tutti i contenuti pasquali: il Dio che libera, il Dio che salva, che si allea e che cammina con il suo popolo. Tutti questi significati è chiaro che vengono richiamati.

Ma l'annotazione più importante e decisiva è quell'altra che sfugge via: “Sapendo che era giunta la sua ora, di passare da questo mondo al Padre”. Questa ora non è casuale. È una espressione tipica di Giovanni. L'ora, secondo Giovanni, è quella della croce. È l'ora del momento in cui la gloria di Dio risplende, nell'amore che dà la vita per la vita degli altri. È quella in cui Gesù è innalzato, per attirare tutti a sé. Dunque questo tempo si colloca nella prospettiva di quell'ora.

Vuol dire che questo gesto ci sta parlando della croce, e che questa è un criterio per leggere questo gesto della lavanda dei piedi. L'una e l'altro sono in dialogo e si illuminano reciprocamente. Lavare i piedi ai discepoli e il salire sulla croce, sono il medesimo movimento, contengono la stessa intenzione, parlano dello stesso desiderio.

Questa ora è descritta con una definizione molto precisa: l'ora di Gesù non è l'ora della sofferenza, non è quella dell'eroico spirito di sacrificio; non è il momento in cui lui arriva al compimento della sua missione, perché arriva alla massima espressione dell'eroismo. No. Quell'ora è quella del compimento, perché Gesù torna al Padre. Il compimento della sua missione è il ritorno al Padre.

È un modo per dire che dentro quel passaggio finale, c'è il sigillo del fatto che tutto ciò che ha vissuto, l'ha vissuto in strettissima comunione con il Padre; e quindi davvero nella sua carne, nei suoi gesti e nelle sue parole, noi vediamo un riflesso del Suo volto in pienezza.

È straordinariamente provocante ascoltare la morte come un compimento! Ma solo perché c'è il Padre che attende, la morte può essere pensata in questi termini; altrimenti è fallimento.

E pensare che il compimento della esistenza di Gesù, e non solo di Gesù, sia questo passaggio ultimo e definitivo, diventa anche il criterio per leggere quale è il senso del tempo che ci è dato di vivere. Il senso del vivere è una costante ricerca di comunione con questo Padre; è cercare di vivere le ordinarie scelte che facciamo, le possibilità che abbiamo, le doti che abbiamo in dono, le circostanze in cui siamo inseriti, come delle occasioni per vivere questa comunione con il Padre; e far sì che questa sia il criterio per affrontare quelle.

Non si ama il prossimo per filantropia, che non è una brutta cosa, ma chi legge il vangelo, l'ascolta e lo crede, ama il fratello perché cerca la comunione col Padre, che è Padre anche di quel fratello.

 

 

Il contesto di intimità e la sovranità di Gesù

 

Il contesto in cui Gesù inizia ad attraversare la sua ora è quello di intimità. Siamo dentro una cena, un banchetto tra amici, tra uomini che hanno condiviso molto, che hanno fatto un cammino insieme, che hanno scelto di mettere in comune le loro esistenze, che hanno fatto delle scelte decisive a partire da una parola; e dunque il legame è molto profondo, intimo, caldo.

Eppure, anche in un ambiente così, serpeggia colui che divide: il diavolo. Non serpeggia nell'etere, ma nel cuore di qualcuno. Giuda ha dentro di sé il seme del tradimento, messo dal diavolo.

Fa specie pensare che in quella cena serpeggia il seme della divisione, del tradimento.

C'è quindi da una parte una atmosfera molto consolante, ma dall'altra carica di drammaticità. Quasi a dirci che forse anche i contesti, che potremmo immaginare i più perfetti, i migliori dal punto di vista della sintonia della condivisione della comunione, della volontà di dedizione reciproca, sono esposti a questo rischio. Anzi sono proprio i contesti nei quali il seme della divisione può lavorare più severamente, duramente, più accanitamente.

Ma su tutto questo regna la sovranità di Gesù. Lui entra nella sua passione non come uno che è in balia degli eventi. Il Gesù di Giovanni è un Gesù sovrano, che tiene le fila della vicenda. Sembra quasi un regista che muove le leve. Lo vediamo anche qui: da una parte Pietro che non vuole accettare che lui gli lavi i piedi, dall'altra Gesù che, invece, tiene in mano saldamente la situazione. Gesù entra così nella passione. Lo aveva già anticipato quando parlava di sé come il buon pastore e diceva: “nessuno mi toglie la vita, sono io che la depongo e poi me la riprendo, perché posso farlo, sono sovrano in questo”. Qui Giovanni ci ricorda che lui è sovrano sugli eventi; con questo “sapendo”, che viene detto due volte, ci dice una consapevolezza di Gesù: Lui sa che quella è la sua ora, sa che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani, che era venuto da Dio e a lui ritornava. Gesù è consapevole e dunque responsabile e dunque sovrano di quel che capita.

Questo dà ai gesti della lavanda una forza, una qualità di verità straordinaria. Non è qualcosa che viene fatto sullo slancio del momento particolarmente intenso. Tutt'altro; è un gesto accuratamente scelto, affatto casuale.

 

 

Il contesto di un amore che giunge al culmine

 

L'altro elemento di contesto è quello dell'amore che giunge al suo culmine. “dopo aver amato i suoi che erano nel mondo Gesù li amò fino alla fine” . Qui non si sta parlando di una espressione quantitativa; si, anche : Gesù arriva a dare tutto potremmo dire così. Ma il senso è più che altro qualitativo, cioè Gesù ama in modo tale che non ci sia nulla dell'amore del Padre che non venga rivelato. Lui ama nel modo più estremo possibile dal punto di vista dell'intensità, della qualità dell'amore, di quella dedizione. Vuol dire che la coincidenza tra quello che Gesù sta facendo e il modo di amare del Padre è perfetta è piena; non c'è più nient'altro da vedere. Ci sarà la croce, ma abbiamo già detto che questo è un anticipo, che sta raccontando lo stesso gesto. E già qui sentiamo che l'amare di Dio è una amare che arriva sino alla fine; e viene da chiedersi ma che cosa è questa fine? Ma fin dove arrivi Signore? Quale è la portata del bene che vuoi per noi; a quali urti regge questo bene? C'è qualcosa che può minacciarlo, che può metterlo in crisi? Che lo manda in affanno? Che qualità ha questo amore? È un amore liberante o soffocante? Che amore è Signore questo ?

Dentro il gesto la lavanda c'è il racconto di questo amore, ma già il segno della presenza di Giuda , raccontato proprio lì dove viene costruito il contesto dell'amore; “ il diavolo aveva messo in cuore a Giuda di tradirlo e Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani”; l'estremo del male e l'estremo dell'amore; e stanno insieme. Ecco che cosa è quel “fino alla fine”. Dobbiamo immaginarlo proprio così: che l'abbraccio dell'amore di Dio avvolge anche il male più estremo. Quella sera i piedi sono stati lavati anche a Giuda, quando già in cuore aveva il seme del tradimento. Le mani di Gesù hanno stretto il tradimento, e non lo hanno rigettato, e non lo hanno colpito, e non gli hanno restituito pan per focaccia. Le mani di Gesù hanno tenuto tra le mani il tradimento e lo hanno custodito. È straordinario questo!

 

 

Gesù si mette all'ultimo posto

 

Giovanni passa a descrivere il gesto. È un gesto che prende da una pratica sociale, abituale: il lavaggio dei piedi veniva normalmente praticato, per consuetudine, all'inizio dei pasti e che aveva un set di valenze, di significati; e quello fondamentale era quello della accoglienza e dell'ospitalità: lo si faceva come gesto di affetto. Poi aveva delle valenze anche igieniche e anche di purificazione. Ma, innanzitutto, aveva il senso dell'accoglienza e dell'ospitalità.

In genere lo praticava chi si trovava in condizione di inferiorità, rispetto a colui al quale veniva praticato; quindi poteva essere un servo; poteva essere una moglie al marito (considerato il contesto del tempo), poteva essere un figlio. In rarissime occasioni poteva essere il padrone, che voleva dare un segno di particolarissima predilezione per l'ospite.

Il problema però è che Gesù non lo fa all'inizio del banchetto; lo fa a banchetto iniziato. È fuori tempo e fuori luogo. Quindi non può essere un gesto di accoglienza e basta; c'è qualcosa di più. C'è qualcosa di simbolico dentro quel gesto, evidentemente. I discepoli lo colgono, si lasciano interrogare, si lasciano inquietare e non capiscono quale sia il messaggio. Ma vedono che Gesù sta assumendo una posizione di inferiorità. Questo è il messaggio più chiaro: lui sta assumendo una posizione di inferiorità! Ma cosa significa che lui si ponga come inferiore rispetto ai discepoli? In che senso? Da che punto di vista? Che valore ha questo gesto?

Il primo immediato valore è quello di ribaltare i criteri, ovviamente: c'è uno scambio dei ruoli.

Pietro ce l'ha ben presente e infatti dice proprio così : “Signore tu lavi i piedi a me?” No Signore,

non si fa! Non è il tuo ruolo; non funziona così nel mondo, non è questo il tuo posto; questa

inversione dei ruoli è inaccettabile questa inversione di ruoli .

Perché così crollano tutte le gerarchie, i sistemi che tengono il mondo , dove chi sta sopra decide,

e chi sta sotto esegue; c'è un criterio di sottomissione che va dal più grande il maggiore al più

piccolo. E non può essere il contrario, perché se lo fosse le non c'è più criterio, una linea; come ci

si regola poi; come si fa stabilire chi viene prima e chi viene dopo; chi decide e chi obbedisce;

come si fa a stabilire qualcuno che definisca le ragioni e i torti. Se i ruoli si invertono salta tutto.

Ed è chiaro che il primo significato del gesto è esattamente questo: Gesù che è Signore e

Maestro, che sa di esserlo, e lo ribadirà, sceglie di essere inferiore.

Capite che se questo non è una recita per bambini, ma c'è una rivelazione del volto di Dio, vuol

dire che io, se c'è un posto dove cercare Dio, devo guardare i miei piedi, capite?!?

Dove sta Dio? Sta ai miei piedi; a far che? A prendersi cura di me.

 

Quanto abbiamo raccontato di un Dio che pretende che stiamo ai suoi piedi; quanto abbiamo raccontato un Dio che, per muoversi a compassione, pretende che ci si inginocchi davanti a lui e ci si umilii. Voi ditemi che corrispondenza c'è tra quel Dio e questo?!? che corrispondenza c'è?

Qui accade il contrario. Devo cercarlo in alto Dio? Come qualcosa che sta sopra di me? Che incombe sopra di me? No! Se cerco Dio, lo trovo ai miei piedi! Straordinario!!!

Straordinario, ma talmente sconvolgente, talmente rivoluzionario, talmente diverso da ogni modo di pensare un Dio qualsiasi, che non si capisce. E Pietro non mi capisce.

 

 

La strada della vita

 

Allora ecco la prima interpretazione. Gesù la spiega in modo un po' particolare, non spiega innanzitutto il gesto, ma la prospettiva: “Quello che faccio ora tu non lo capisci, ma lo capirai dopo... “. C'è un punto dal quale partire, per comprendere quel gesto. Il dopo si intende: dopo la croce, dopo la resurrezione. Ecco perché siamo partiti dalla Pasqua. Ecco perché siamo partiti dal Risorto e poi siamo entrati nel sepolcro vuoto; e poi siamo passati dalla croce per arrivare qui. Perché se non sapessimo la Risurrezione, il silenzio del sabato, se non sapessimo la croce, che cosa capiremmo di questo gesto? Sarebbe un gesto un po' eccentrico, anticonformista.

Ma qui non c'è nulla di ciò. Qui c'è la strada della vita: Pietro capirai dopo che questa è la strada della vita. E tu capirai che per entrare nella vita, si passa da questo mettersi ai piedi degli altri. Non la vita intesa come il paradiso. Il pieno della vita, nella vita piena che viene donata già qui; perché la beatitudine è una esperienza del presente e non solo del futuro. In una vita piena, ricca di significato, nella quale faccio l'esperienza di sentire il pieno dell'umanità che vivo, e del suo destino ultimo.

A questo arrivo da che parte comincio? Da dove? Proprio mettendomi in ginocchio. Ma questo lo si capisce solo partendo dal sepolcro vuoto e ritornando all'indietro, altrimenti diventa retorica, un gesto romantico.

Certe nostre narrazioni romantiche sentimentali della lavanda dei piedi, sono narrazioni che non contengono l'annuncio pasquale. Non posso trattare, come una piccola recita, un gesto il cui senso è rivelare la strada della vita.

Quindi Gesù indica una prospettiva dalla quale partire, per guardare quel gesto.

La resistenza di Pietro, secondo il classico modo di raccontare di Giovanni, quello dei dialoghi che procedono per malintesi (vedi la samaritana e Nicodemo e in molti altri casi) è la circostanza in cui l'evangelista arriva a precisare la prima interpretazione del gesto. Gesù sta parlando di sé, di qualcosa che Lui vuole insegnare ai discepoli. Il messaggio potremmo tradurlo in sintesi così:

il rapporto tra voi e me è stabilito da una mia profonda, solidissima, indistruttibile volontà di bene e di salvezza: “Se non ti laverò non avrai parte con me”. Io, invece, voglio che tu abbia parte con me, e il tuo stare con me esiste, accade e c'è per mia volontà. E la tua comunione con me è garantita dalla mia volontà su di te. Il tuo essere discepolo, il tuo camminare con me, il condividere il mio destino, il tuo condividere l'amore che io insegno, il tuo poter condividere la gioia che io dono, non vengono da un tuo merito, da una tua capacità, dalla tua prontezza ad essere all'altezza; vengono dalla mia volontà. E la tua gioia e la tua beatitudine, la tua pienezza di vita, ci sono perché io le voglio, e non voglio altro che questo. Lascia che io te la doni Pietro.

Maestro questo vuol dire perderti?” Gli chiederanno durante la cena? Ma e necessario che io vada, sarà la sua risposta. Perché è proprio il dono della vita mia che permetterà, una volta donata, questa comunione così inscindibile. Perché il dono è dono, e sarà per sempre!

E allora Pietro di buon grado con un altro mezzo malinteso “Allora lavami tutto” si lascia lavare i piedi e Gesù completa il gesto con tutti gli altri discepoli.

 

 

Poiché io ho lavato i piedi, potete farlo anche voi

 

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Da ultimo Gesù propone anche un secondo pensiero interpretativo del suo lavare i piedi: che descrive quello che i discepoli devono fare; ciò che tocca a loro.

Il punto di partenza è la memoria che lui è Signore e Maestro: “Sapete che cosa vi ho fatto? Voi mi chiamate Signore e Maestro e dite bene perché lo sono”. Dunque, quel cesto di mettersi in ginocchio, non ha diminuito di un millimetro la sua autorevolezza, la sua grandezza, la sua signoria; assecondando il tema di Giovanni, dovremmo dire la sua regalità, la sua sovranità . Non l'ha diminuita, anzi ne è la piena espressione.

Dunque il punto di partenza è questo: una autorevolezza che non è sminuita per nulla. E il criterio che Gesù offre è quello della imitazione dal più grande al più piccolo. Se io .. anche voi dovete fare lo stesso.

Questo questo è evidentemente il simbolo di un fare più grande; non si tratta di lavare i piedi, non si tratta di fare i piaceri alle persone; questo è un tradurre il gesto in un momento sentimentale.

Certo il voler bene alla gente passa anche dal fare i piaceri e dall'aiutare le persone; ma qui c'è qualcosa di più profondo, evidentemente. Quel lavare i piedi è simbolo di una fare più fondamentale: il fare l'amore che dà la vita. Ecco qual'è il senso di quel mettersi ai piedi: prendo la mia vita e la metto nelle tue mani; perché sento che la tua vita è parte della mia storia; e allora la mia vita è al servizio della tua.

Quello che Gesù invita a fare è questo servizio umile che rifiuta ogni potere, ma che vive di dedizione all'altro, perfino di subordinazione!

Qui appunto, come anticipavo, non c'è un'etica della imitazione, il bisogno di semplicemente ripetere i gesti; qui c'è l'annuncio che viene fondato qualcosa di nuovo! Potremmo tradurlo così: poiché io l'ho fatto, adesso potete farlo anche voi; vi sto aprendo una strada; io pongo le condizioni affinché voi possiate fare lo stesso! Voi potete fare questo, non per un motivo qualsiasi, ma perché l'ho fatto io. Il gesto che io ho compiuto e la croce che io affronterò è il fondamento del vostro farvi servi, del vostro dare la vita.

Qui non si tratta di imitare dei gesti, qui si tratta di radicarsi dentro l'amore di Cristo; di andare ad immergere la propria vita e di radicarla; di farla diventare il punto da cui estrai la linfa, il nutrimento, il senso, la forza dentro l'amore di Cristo. Se così non fosse, il servizio diventa una recita, diventa una rappresentazione, bella magari, affascinante, consolante, ma solo rappresentazione.

Il vangelo non ci chiede di fare una rappresentazione; che ci importa della rappresentazione!

Il Vangelo ci vuole dare vita, sempre e nuovamente. E come si fa a entrare dentro quella vita? Ecco, appunto, non mettendosi e preoccupandosi di fare centomila attività, gesti che richiamino questo! No! Cercando altro innanzitutto: il radicarsi nell'amore di Cristo. Nella misura in cui io imparerò a saperlo, a contemplarlo, a intuirlo, ad amarlo, allora in me nascerà la coscienza, la libertà, il senso, lo spirito del servo. E il servire gli altri non potrà essere occasione di frustrazione, di ricerca di riconoscimento, di quel malanimo che ogni tanto senti anche nei nostri ambienti, di chi magari per anni fa un servizio e poi si lamenta perché nessuno glielo riconosce.

Ma chi si radica dentro quell'amore ha come primo dono quello della beatitudine; la beatitudine che non è, innanzitutto, assenza di turbamento (in quella cena c'era un tradimento), non è innanzitutto assenza di fatica. Eh sì, il Signore mi sta dando beatitudine perché io, nel servire i fratelli, non faccio neanche un po' di fatica! Beh mi auguro che la beatitudine evangelica sia un po' di più di questo. Per essere sereno e non sentir troppa fatica ci son mille tecniche psicologiche per contenerla.

Piuttosto, quella beatitudine è la percezione che quel mio farsi servo, quel mio dar forma alla mia vita come servo, non è mai senza significato. Anzi che la mia vita proprio in quello trova un senso e uno spessore, che in nessun altro modo riesci a trovare. Questa è la beatitudine evangelica: una profonda esperienza di senso; che ripeto, può conoscere il turbamento, la difficoltà, la fatica, l'affanno, perfino l'afflizione, ma non il senso di disperazione ultimo. Ecco è così che l'amore che si fa servo può stare al sicuro, può attraversare anche tradimenti, dolori, umori, limiti personali, ma quando è radicato in Cristo, e non è solo una rappresentazione del farsi servo, conosce la beatitudine e sperimenta la gioa della vita piena.